Poi l’ultimo gesto del poeta che schiantato dal rimorso si toglie la vita. Ieri lo abbiamo accompagnato dalla morgue al nuovo cimitero di Capena, un piccolo paesetto dove Claudio viveva da alcuni anni, con la moglie e la figlia Saba, sia per il suo desiderio di sempre, di circondarsi di natura e pulizia, sia perché aveva comprato questo buco che gli consentisse di non avere l’assillo del pagamento di una pigione e sia perché a Capena il costo della vita è meno della metà di Roma, quindi una scelta equilibrata, non stravagante, come molti giornali hanno voluto scrivere per darne un quadro a tinte scure in cui apparisse la vita sregolata, il disordine, il rifiuto alla normalità. Alla morgue c’erano molti suoi nuovi amici, che lo stimavano e gli volevano bene, persone che io non conosco, sono amici di questi ultimi anni. Quasi tutti non lo hanno voluto vedere morto, neppure Gian Maria, erano tutti vestiti con i pullover bianchi e le giacche di cuoio. Io avevo il vestito scuro e la cravatta nera del meridionale. Claudio aveva un pantalone con due grandi tasche sovrapposte, da cacciatore e una bella giacca sportiva color cachi, ben rasato, capelli corti, le mani bianche di alabastro e nel viso quel suo accorato rimpianto, quella sua espressione alla fine della lettura di una poesia o quanto ti ascoltava con quella sua intima convinzione che si doveva ascoltare gli altri fino in fondo e capirli. Il giorno prima, adirato, aveva mandato su Roma un diluvio e poi per il funerale una splendida giornata a esaudire il desiderio di mamma Lia. Nella stanza, io appoggiato a un muro ricordandogli le nostre più belle serate. Una donna, che lo fissava a lungo, commossa, e altri due persone che non conosco. Fuori tutti gli altri, come ti dissi, Carlo, Giacomo, Annamaria Chio, annientati sinceramente dal dolore. Alcuni fotografi cercavano di fissare emozioni, altri senza capire, inopportunamente cercavano qualcos’altro che non c’era. Poi sai come vanno queste cose, c’è il momento di chiudere la bara e si chiede ai parenti se si può chiudere e così mandai a chiedere a Gian Maria se voleva vederlo per l’ultima volta, se si potesse chiudere la cassa, disse che si poteva chiudere. Allora mi chinai su Claudio e ci abbracciammo per l’ultima volta, per l’ultima volta, lui guardò al di là del parapetto di Ponte Milvio e mi disse di alcuni versi di una tua poesia, che lui tanto amava, poi chiuse gli occhi spossato dalla stanchezza e dormì. Seguì una colonna di auto e lungo la strada piena di campi, che da Prima Porta sale a Capena cercai di immaginare i suoi pensieri, erano state giornate di un’amara disperazione, che aveva sopraffatto l’impegno civile, la cultura, l’amore alla vita come aveva in così spiccato grado. Arrivammo a Capena e per uno stupido disguido i soliti addetti alle pompe funebri non sapevano di niente, errammo per ore, per chilometri, per deserti e per paesi super popolati e i contadini ci guardavano come falene, come aveva scritto lui tanti anni addietro. Poi finalmente si arrivò al cimitero nuovo e anche lì fu penoso, non c’era il custode del cimitero, non si sapeva dove collocarlo e in questa attesa ho sentito tutta la sua disperazione degli ultimi momenti, i momenti del gesto finale. Che altro se non la poesia che era in lui deve avergli dato questa forza, e alla morgue, prima che chiudessero la cassa, si era staccato da me un altro essere, che ero io stesso e lo aveva preso in braccio e portato fuori al sole perché tutti lo vedessero, ora così com’era, come un fantoccio di cera. Che disperata condizione, un incubo, come nei tuoi versi.... Una seconda visione, vidi Saba con i capelli enormi e arruffati, gli occhi sbarrati, che brandendo una spada di legno, gridava al cielo il suo dolore. Scrissi sul cemento il suo nome e vi aggiunsi “poeta”, un abbraccio. “ Roma, 21 Sett.97